«Didone Liberata» di Salvatore Conte (continuato)
Dramma teatrale in quattro Atti
«Dido (Elissar) Delivered» an Italian Drama in 4 Acts by Dr. Salvatore Conte
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Con note di Carneade
Opera depositata presso la Società Italiana degli Autori ed Editori
Sezione OLAF
© 2003,
Salvatore Conte

Parte 4 di 4 del documento
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Scena Quinta

Bassa Valle del Tevere. Dintorni del Campo di Enea e Didone, presso Pallanteo. Medesima notte.(Entrano alcune guardie di Cartagine e rimangono in disparte. Poi entra Cadmo)

Cadmo (fra sé): «Nobile Sicheo, cognato mio, perché m’hai chiamato su queste terre lontane con l’inganno?
Ché la tua sposa compassionevole, tale stilettata al cuore intendeva evitarmi.
Se il mio compito era di adempiere ai solchi, nell’attesa che divenisse Enea il tuo braccio, la tua spada e il tuo labbro, temevi forse che mi sarei sottratto?
Mai ho rifiutato qualcosa che fosse in favore della tua sposa.
E se ancor qualche goccia di sangue il mio stanco cuore riuscirà a spargere nelle mie membra, io continuerò a proteggerla.
E lascio a tale scopo, in questa valle, tutti i miei uomini.
Ma ora, la mia missione, qui, nella valle del mio egoismo, è terminata.
Non posso dar nulla di più.
Sciolgo solerte le mie vele, con piena oscurità ed opaca luna, e mare ostile.
Me ne vado come il Troiano da Cartagine.
Ma per il motivo opposto.
Per troppo amore.
Insostenibile e tremendo.
Come il mio egoismo.
Or congedo le mie Guardie, e m’appresto a raggiungere questi lidi.

(Si rivolge alle guardie, afferra poche cose e lascia il Campo. Le guardie escono. Entra Sicheo, che cerca di fermarlo. Ma Cadmo non lo vede. Sicheo lo segue. Infine, Cadmo, credendosi solo, si ferma, pensieroso. Poco dopo, brandisce la spada, si volta all’improvviso e si scaglia contro i più vicini alberi, come fossero nemici, rischiando di colpire lo spirito corporeo di Sicheo, che riesce a scorgere appena in tempo)

Perdonami, Sicheo.
Da quanto mi segui?».

Sicheo: «Ti ho appena raggiunto.
Per dirti di aspettare Enea.
Perché anch’egli vuole raggiungerti».

(Entra Enea. Egli è ora in grado di vedere Sicheo)

Enea: «Dunque eccoti, Capitano di Cartagine.
T’ho cercato per scambiar parola, ma i tuoi uomini m’hanno annunciato la tua solitaria partenza.
Eppur vedo che sei in compagnia».

Cadmo: «Questo nobile Signore non verrà con me.
I miei uomini sono quindi nel giusto.
E giusta è ancor più la mia decisione, adesso».

Enea: «Perché intendi lasciare la tua Regina?».

Cadmo: «Tu mi chiedi questo?

(Cadmo abbassa il capo prima di riprendere la parola)

Non m’ascoltare, Enea. Ché il mio decoro è in licenza».

Enea: «Eppur son venuto per ascoltarti, Cadmo. Ché debbo sapere cose che forse solo tu conosci».

Cadmo: «Se potrò dire, lo farò, Signore.

(Enea guarda Sicheo per invitarlo ad allontanarsi)

Egli conosce il nostro cuore meglio di noi stessi, Enea. E condivide il suo con noi».

Enea: «Tu hai salvato la grande Regina di Cartagine?».

Cadmo: «Che sia lei a parlarti».

Enea: «Ella non è più mia, Cadmo.
Ho vinto molte battaglie, ma ho perso Didone.
Molte insidie ho prevenuto, ma non quella ch’ella dice d’aver affrontato».

Cadmo: «Ascolta allora le sue ultime parole, che ella ti dedicò in punto di morte:
«Ferro, passami il core…»».

(Entrano Busenello e Didone. Al cenno del letterato, Didone prende la parola)

Didone95:
«Ferro, passami il core,
E se trovi nel mezzo al core istesso
Del tuo padrone il nome,
No ’l punger, no ’l offender, ma ferisci
Il mio cor solo, e nella stragge mia
Sgorghi il sangue, esca il fiato,
Resti ogni membro lacerato e offeso,
Ma il bel nome d’Enea,
Per cui finir convengo i giorni afflitti,
Vada impunito pur de’ suoi delitti.
Cartagine, ti lascio.
Spada, vanne coll’elsa e ’l pomo in terra,
E nel giudicio della morte mia
Chiama ogn’ombra infernal fuor degli abissi.
E tu, punta cortese,
Svena l’angoscie mie,
Finisci i miei tormenti,
Manda il mio spirto al tenebroso rio:
Empio Enea, cara luce, io moro, a Dio».

(Busenello e Didone escono)

Enea: «Dolce Dido, amor perduto…
Riconosco le tue parole.
E vedo la tua seconda luce.
Ché la prima abbaglia gli occhi.
Mentre la seconda scalda il cuore.
Generosa Dido, ché mi chiami »empio»…
Giacché ti lasciai su aperta riva, preda dei flutti, piuttosto che in sicur porto.
E me meschino, che ho avuto ansia di lasciar sì preziosa creatura a me devota…

(Enea abbassa il capo prima di riprendere la parola)

E tu Cadmo, tu la salvasti?».

Cadmo: «Ho fatto quello che porterò a mia discolpa l’estremo giorno.
Ho fermato la sua mano assassina.
Solo questo ho fatto.
Ma il suo nobile sangue già scorreva, perché esso non aspettava che infimo varco per svenare il corpo.
Allora ella mi disse "aiutami…"».

(Cadmo si fa pensieroso)

Enea: «Nobile Cadmo, io ti rendo i più alti onori per ciò che hai fatto.
Io la lasciai ferita, affannata e sola, quando lei invocava il mio aiuto.
Tu la lasci forte dei tuoi rimedi, e protetta dai tuoi uomini.
M’hai battuto, Cadmo.
Ho vinto molti Eroi lungo il mio cammino.
E con l’aiuto del Fato, molti nemici cadranno ancora sotto la mia spada e quella dei miei discendenti.
Ma tu m’hai battuto, Cadmo.
Non un Eroe con la sua spada.
Ma un Uomo con i propri mezzi: la sua umanità.
Non un Eroe per voler del Fato m’ha sconfitto.
Ma un Uomo che contro di esso si è battuto.
E amaro e terribile è il sapore della sconfitta.

(Enea abbassa il capo prima di riprendere la parola)

Ma ritarda la tua partenza, Capitano di Cartagine.
E or torna con me al Campo, ché molto ancor ti trattiene in questi luoghi».

Didone (fuori scena, ad alta voce): «Cadmo…
Cadmo, aiutami!
Cadmo…».

Cadmo (fra sé, scuotendo il capo): «La mia mente m’inganna…
Or come capisco bene la dolce follia che ti colpì, Didone mia!».

Enea: «Cadmo, non odi forse anche tu la voce di Didone?
La nostra Regina s’è perduta nel bosco.

(Fra sé, con mestizia)

Ed è te che chiama…».

Cadmo (fra sé, con sentimento contrastante): «Allor non m’inganno…
E’ me che chiama la fonte di tutte le mie vane sofferenze.
Ma ella chiama Cadmo od il Capitano delle sue Guardie?
Ed ella non chiama il nuovo Re del Lazio o non chiama Enea?
Come son meschino, ormai.
Che sia Dido o la mia Regina, lei mi chiama ed io rimango qui a favellar…

(Rivolto ad Enea)

Cosa affermi, Enea?
Tal luoghi sono insidiosi, e la Regina è raminga?

(Cadmo sta per gridare in direzione di Didone, ma si alza forte vento in senso contrario, ed egli deve rinunciare)

Allor separiamoci, così da trovar tosto la nostra Regina».

(Cadmo esce. Enea accenna ad uscire dalla parte opposta, ma visto Sicheo che comincia a seguirlo, si ferma)

Enea: «Chi sei tu che segui il mio passo?».

Sicheo: «Io sono Sicheo, primo sposo della nobile Didone».

Enea: «Nobile Sicheo, perché sol ora ti riveli?».

Sicheo: «Molte volte ho incrociato i tuoi passi, Enea.
Ma solo chi ama la mia sposa quanto me, può vedermi».

Enea: «E Cadmo? T’ha visto subito, Cadmo?».

Sicheo: «Egli m’ha visto subito, sì.
Ma non da subito io incrociai i suoi passi.
E ciò rende la sua impresa degna di un grande Eroe.
Perché io incrocio la strada di coloro che la mia sposa ama quanto ha amato me.
Tu fosti il primo, e Cadmo è stato il secondo.
Quando vedrai Didone, dille che Elicano non l’ha dimenticata.
Perché solo in sogno ho facoltà di apparirle.
Ed è per questo che il Fato avverso ci ha divisi per mezzo della crudele insonnia che la colpì».

(Escono insieme)

Scena Sesta

Bassa Valle del Tevere. Fitto bosco nei dintorni del campo di Enea e Didone, presso Pallanteo. Medesima notte.

(Entra Didone)

Didone (ad alta voce): «Cadmo! Cadmo!

(Fra sé)

Cadmo…
Dove sei aquila di Tiro?
Io son smarrita senza di te…
Fuori di me, io perdo la strada.
Dentro di me, io perdo me stessa.
Distendi le tue ali, e vieni a prendermi, Cadmo.
Cadmo…
Dove sei?».

(Entra Enea seguito da Sicheo)

Enea: «Eccoti finalmente, Regina.
Cadmo ti cerca. Tra poco sarà qui.
Resta con lui.
E quando m’avrai perdonato, vieni con lui alla mia Reggia, a portare la tua luce nella mia nuova città.
Un’ultima cosa, Regina: Elicano non t’ha dimenticata».

(Didone si commuove)

Didone: «Anche tu hai visto il mio sposo, dunque?
Elicano96 è colui che mi amò al pari di Sicheo, e che mi rimase per sempre amico.
E che io porterò per sempre nel mio cuore».

(Didone piange. Poi allunga la sua mano. Enea la sfiora, e Didone la lascia. E’ il loro saluto. Enea si defila da una parte, accanto a Sicheo. Entra Cadmo. Didone allunga la sua mano. Cadmo la sfiora, e Didone la stringe. E’ molto più di un saluto)

Cadmo: «Mia Regina, cosa fate qui nell’oscurità?
Anche Enea vi cerca, ma ha preso un’altra strada».

Didone: «Sì, lo so. E scorre vicino alla mia, ma non l’attraversa».

Cadmo: «Vi riconduco al Campo.
Poi partirò immediatamente.
Cartagine ha bisogno di me».

Didone: «La nostra nuova Tiro è qui adesso.
E la costruiremo insieme, Cadmo.
Se tu vorrai.
Perché non ti parlo da Regina, ma da colei che tu hai liberato dal proprio Fato.
Dalla propria Ombra oscura.
E dal proprio iniquo affanno.

(Cadmo si volta)

E’ ancor mio il tuo cuore, aquila di Tiro?».

Cadmo: «Perché me lo chiedi?
Tu sai leggere nei miei occhi come sulle iscrizioni incise sul marmo dei templi.
Gli occhi son per te come l’acqua limpida dei ruscelli di montagna, sotto la quale è facile scorgere la vita che guizza e fluisce in essi.
E non opaco specchio, che riflette null’altro che sé stessi.
Perché con la propria misura si giudicano spesso gli altri».

(Didone gli rivolge un intenso sguardo)

Didone: «Te l’ho chiesto perché volevo ascoltare le tue parole.
Domani, con l’aiuto di Febo, ritroveremo il nostro giovane cedro, Cadmo».

(Entrano Carneade e Busenello)

Carneade: «Mio il complotto, tue le parole…».

Busenello97:
L’ancora della speme,
De’ pianti il mare insano
Qualor ondeggia e freme,
Non mai si getta in vano,
Ch’amor nel mezzo ai casi disperati
I porti più felici ha fabbricati.

(Carneade e Busenello escono. Poco dopo, anche Cadmo e Didone escono, l’uno accanto l’altra. Enea li osserva defilato, insieme a Sicheo)

Sicheo: «Ora io sono felice, e tu un vero Eroe, Enea.
Costruisci la tua città su fondamenta solide.
Aprila ai forestieri e mostrala alle altre genti.
Coltiva la poesia e rendi generosi i cuori dei suoi cittadini.
E non usar la spada contro i tuoi fratelli, se non per difender sangue innocente.
Ma or debbo lasciarti, ché immensa luce viene a prendermi.
Ed io son forestiero su questo mondo».

(Sicheo esce. Poi esce anche Enea; pensieroso. Entrano Virgilio e Carneade. Ad un cenno del primo, la scena cambia)

Campi nei dintorni di Mantova. Ai tempi d’oggi.

Virgilio: «Dunque è questo il tuo complotto, Carneade».

Carneade: «Sì, è questo, divin poeta.
Perché non hai scritto una volta per tutte, ma tutte le volte in una sola.
Ed io, Carneade, ho pensato ad una di quest’ultime.
E per codesta presunzione, io ben cosciente me ne dolgo».

Virgilio: «Or dunque Carneade, se il complotto ha buona causa, non serve giustificarlo.
Ché già in tanti avranno a dolersi della tua ardita impresa.
E questo conferma la mia arte.
Ma dì loro di non prendersela con Carneade, ma di rivolgersi a Tasso98, Busenello e Leopardi99, ed allor, forse, si faran prudenti.
Or ti lascio, anima amica che ancor raminghi su questa terra».

(Virgilio esce)

Carneade: «Ed anch’io m’accingo a lasciar la scena, Maestro.
Ché quello che ho potuto far, ormai ho già fatto, chiedendo venia a lor tutti che han patito il complotto, e con mille grazie a color che con me han complottato».

(S’inchina. Sipario)


[1] Città lombarda nei dintorni della quale, il 15 ottobre del 70 a.C., nacque Virgilio.
Fondata dagli Etruschi nel VI secolo, fu dal 214 la Mantua romana.
[2] Filosofo greco (214-129 a.C.) che risultava sconosciuto al don Abbondio di Manzoni; da qui la nuova cognizione di “persona poco conosciuta o ignota (Zingarelli)”.
[3] Nome fenicio di Didone.
[4] Antica città costiera della Fenicia, nell'attuale Libano.
[5] Dal Primo Libro.
[6] Con riferimento allo Stige, il più importante fiume infernale della mitologia greco-romana.
Nell'Eneide, esso cingeva con nove anelli l'Oltretomba pagano (dal Sesto Libro):
Ma quanto ora vorrebbono i meschini
esser di sopra, e povertà, vivendo,
soffrire e de la vita ogni disagio!
Ma 'l fato il niega, e nove volte intorno
Stige odïosa li ristringe e fascia.

[7] Dal Quarto Libro.
[8] Personaggio di nostra concezione.
Ufficiale delle Guardie di Belo, Re di Tiro e padre di Didone, alla morte di questo, mal sopportando la montante tirannide del nuovo Re Pigmalione, si ritirò dall'incarico insieme a pochi altri fedelissimi. Indi fu al seguito di Didone dalla fuga da Tiro, e da questa venne nominato Capitano delle sue Guardie personali, in omaggio alla fedeltà portata al padre.
Dal Primo Libro dell'Eneide (Venere parla al figlio Enea, appena giunto sulle coste di Cartagine, dissimulata sotto le spoglie di una giovane cacciatrice):
«Or n'è capo e regina
Dido che, da l'insidie del fratello
fuggendo, è qui venuta. A dirne il tutto
lunga fôra novella e lungo intrico.
Ma toccandone i capi, avea costei
Sichèo per suo consorte, uno il piú ricco
di terra e d'oro, che in Fenicia fosse,
da la meschina unicamente amato,
anzi il suo primo amore. Il padre intatta
nel primo fior di lei seco legolla.
Ma del regno di Tiro avea lo scettro
Pigmalïon suo frate, un signor empio,
un tiranno crudele e scellerato
piú ch'altri mai. Venne un furor fra loro
tal, che Sichèo da questo avaro e crudo,
per sete d'oro, ove men guardia pose,
fu tra gli altari ucciso; e non gli valse
che la germana sua tanto l'amasse.
Ciò fe' celatamente: e per celarlo
vie piú, con finzïoni e con menzogne
deluse un tempo ancor l'afflitta amante.
Ma nel fin, di Sichèo la stessa imago,
fuor d'un sepolcro uscendo, sanguinosa,
pallida, macilenta e spaventevole,
le apparve in sogno, e presentolle, avanti
gli empi altari ove cadde, il crudo ferro
che lo trafisse, e del suo frate tutte
l'occulte scelleraggini le aperse.
Poscia: "Fuggi di qua, fuggi" le disse
"tostamente, e lontano". E per sussidio
de la sua fuga, le scoperse un loco
sotterra, ov'era inestimabil somma
d'oro e d'argento, di molt'anni ascoso.
Quinci Dido commossa, ordine occulto
di fuggir tenne, e d'adunar compagni;
ché molti n'adunò, parte per odio,
parte per téma di sí rio tiranno.
Le navi che trovâr nel lito preste,
caricâr d'oro, e fêr vela in un súbito.
Cosí 'l vento portossene la speme
de l'avaro ladrone. E fu di donna
questo sí degno e memorabil fatto».

[9] Dal Quarto Libro.
[10] Personaggio di nostra concezione.
Nobildonna esule da Tiro al seguito della propria famiglia, di bellezza pari a quella di Didone, è invaghita di Cadmo.
[11] In specie, Enea.
Da Teucro, Re di Troia, dal quale i Troiani furono detti Teucri.
[12] In specie, Re Iarba.
I Getuli sono tuttora popolo nomade africano, gravitante nella regione a sud della Numidia.
[13] Divinità protettrice di Cartagine, che intendeva portare a rango di potenza ineguagliabile.
Dal Primo Libro dell'Eneide:
Grande, antica, possente e bellicosa
colonia de' Fenici era Cartago,
posta da lunge incontr'Italia e 'ncontra
a la foce del Tebro: a Giunon cara
sí, che le fûr men care ed Argo e Samo.
Qui pose l'armi sue, qui pose il carro,
qui di porre avea già disegno e cura
(se tale era il suo fato) il maggior seggio,
e lo scettro anco universal del mondo.
Ma già contezza avea ch'era di Troia
per uscire una gente, onde vedrebbe
le sue torri superbe a terra sparse,
e de la sua ruina alzarsi in tanto,
tanto avanzar d'orgoglio e di potenza,
che ancor de l'universo imperio avrebbe:
tal de le Parche la volubil rota
girar saldo decreto.

[14] Dal Quarto Libro.
[15] Città natale di Busenello.
[16] Nell'Opera di Busenello, Iarba è colto da lirica follia.
Tale atteggiamento è funzionale ne La Didone al mutamento degli eventi, ed a livello ideologico, fa da contrappunto all'esaltata saviezza di Enea.
Nel nostro lavoro, si suppone che a Busenello piaccia riconoscere al suo personaggio, la saviezza solo in apparenza negata nell'Opera.
Anche noi, peraltro, riprenderemo il contrappunto, ed il concetto della follia allorché Minerva la imputerà ad Enea (Terzo atto, Seconda scena, Primo intervento di Minerva).
[17] Dal Terzo atto, Dodicesima scena.
[18] «E, perché secondo le buone dottrine è lecito ai poeti non solo alterare le favole, ma le istorie ancora, Didone prende per marito Iarba. E se fu anacronismo famoso in Virgilio che Didone non per Sicheo suo marito, ma per Enea perdesse la vita, potranno tollerare i grandi ingegni che qui segua un matrimonio diverso e dalle favole e dalle istorie. Chi scrive sodisfa al genio e per schiffare il fine tragico della morte di Didone si è introdotto l'accasamento predetto con Iarba. Qui non occorre rammemorare agl'uomini intendenti come i poeti migliori abbiano rappresentate le cose a modo loro: sono aperti i libri e non è forastiera in questo mondo la erudizione. Vivete felici».
Giovanni Francesco Busenello, La Didone (1641 – libretto per opera lirica); estratto dall'Argomento (ne Lo Stracciafoglio, con commento e note di Monica Anchieri).
[19] Divinità olimpica, figlio di Giove, e messaggero degli Dei.
[20] Nell'Opera di Busenello, Mercurio interviene in favore del mortale fratellastro, Iarba.
Giova precisare che si tratta di intervento per lo più estetico, per le ragioni sopra richiamate riguardanti la follia (apparente) di Iarba. In realtà, l'innovativo personaggio di Busenello appare folle a chi non lo comprende, compreso “il Cielo”. Ma per mezzo della sua infermità riesce a commuovere i suoi divini congiunti, e ottiene così i loro buoni auspici.
Dal Terzo atto, Scena decima de La Didone, i due brani pronunziati da Mercurio (il primo tra sé, il secondo rivolto a Iarba):
«Ecco Iarba impazzito.
O natura creata
Ai casi destinata!
O caduci mortali
Calamite de' mali!
Vo' sanar la pazzia, ma non l'amore
Di questo infermo core.
Vuo' che saggio ritorni,
Ma non si scordi mai
Dell'amata Didone i dolci rai».
[…]
«Vivi felice Iarba;
L'adorata da te bella Regina
Così il Cielo permette:
Fatto ha l'influsso reo l'ultime prove,
Or il Ciel sovra te delizie piove».

[21] Il brano che segue è tratto dal Secondo atto, Dodicesima scena.
Esso è pronunziato sulla scena originale da Iarba, ma è da considerarsi con gran evidenza un'annotazione personale dell'Autore.
Per tal motivo è qui fatto dire allo stesso Busenello.
[22] Dal Terzo atto, Undicesima scena.
[23] Si veda qui quanto già esplicato in pregressa nota.
Si aggiunge che il brano che segue è pronunziato sulla scena originale da Iarba (Terzo atto, Dodicesima scena), di fronte all'apparente morte di Didone.
Per non confondere lo spettatore, memore dell'aspro Iarba di Virgilio, si è preferito, con espressa avvertenza del personaggio di Busenello, far recitare a questo la parte; che peraltro esprime, invero, la visione personale ed innovativa del Busenello Autore, similmente a quanto detto in pregressa nota.
[24] Dal Quarto Libro.
[25] Riprendiamo il brano originale citato sopra, in cui la mente sconvolta e suggestionata di Didone produce, nelle ore notturne, false visioni e sensazioni, confermando nella Regina l'idea del suicidio.
Dal Quarto Libro dell'Eneide:
Quinci notturne voci udir le parve
del suo caro Sichèo che la chiamasse.

[26] La spada di Enea.
[27] «Si credeva che ogni mortale avesse in capo un capello d'oro che al momento della morte era strappato da Proserpina (moglie di Plutone e figlia di Cerere), senza di che la morte non poteva avvenire», (Adriano Bacchielli).
Qui è da noi richiamata la suggestione del medesimo color biondo, dei capelli terreni e di quello “celeste”.
S'erano infatti detti biondi (per bocca di Cadmo) i capelli di Didone; aspetto questo, peraltro, largamente ripreso in pittura (fra tutte, si veda l'incomparabile “Panorama con Didone ed Enea”, di Thomas Hampson Jones – 1769).
Dal Quarto Libro dell'Eneide:
Contra sé fatta ingiurïosa e fera,
il delicato petto e l'auree chiome
si percoté, si lacerò piú volte.
[28] E' appena il caso di confermare che si tratta del nome di Enea.
[29] Qui si richiama il fatto che gli eventi decisivi sono da Virgilio collocati nella stagione invernale.
Tale sottolineatura non è apposta per mera coerenza estetica, ma risulterà utile alla luce dell'ulteriore narrazione.
[30] E' noto infatti come Didone bramasse aver figli da Enea.
Dal Quarto Libro dell'Eneide (parla Didone):
«Almeno avanti
la tua partita avess'io fatto acquisto
d'un pargoletto Enea che per le sale
mi scherzasse d'intorno, e solo il volto,
e non altro, di te sembianza avesse;
ch'esser non mi parrebbe abbandonata,
né delusa del tutto».

Ogni ulterior commento è cosa vana.
[31] Si vuol sottolineare l'alterazione innaturale della mente del suicida, in particolare nelle estreme condizioni del caso di specie.
Le Furie della mitologia greco-romana, erano divinità terribili che, oltre ad eseguir vendette, suscitavano la discordia tra gli uomini. In questo caso, la discordia della suicida si sviluppa nei confronti di sé stessa.
Nel prosieguo della narrazione, sarà citata la Furia Alletto, che seminerà discordia tra Troiani e Italici per conto di Giunone.
[32] Si vuole assimilare l'eclissi della coscienza di Didone, all'eclissi del sole.
[33] Come impietosamente ricorda, subito dopo, lo stesso Cadmo, Sicheo fu ucciso a tradimento mentre era intento a pregare.
Dal Primo Libro dell'Eneide (parla Venere, si veda pregressa nota):
«Venne un furor fra loro
tal, che Sichèo da questo avaro e crudo,
per sete d'oro, ove men guardia pose,
fu tra gli altari ucciso».

[34] Apollo, Dio della luce e della pace, identificato col sole.
Qui si riprendono i tempi dell'Eneide. La partenza notturna di Enea è percepita da Didone come ennesima umiliazione, e scatena definitivamente in lei l'ira suicida.
Nella nostra narrazione, il suicidio è tentato in piena notte, qualche ora prima di quello virgiliano.
Lo si giustifica con la presenza insistente di Cadmo, che la Regina pensa di eludere meglio in ora notturna.  [35] Dal Secondo atto, Seconda scena.
Nella scena originale, è Didone che così si rivolge a Iarba.
[36] Tale si sente già Didone nei confronti di Enea, che la possedette per la prima volta durante una battuta di caccia.
[37] Dal Secondo atto, Seconda scena.
Si veda pregressa nota. Stavolta è giusto Didone a recitar la parte.
[38] In realtà, si lascia intendere che Cadmo ha dato l'ordine.
[39] L'idea del suicidio è infatti ormai ritirata.
[40] La superficiale Anna non può cogliere l'allusione della sorella, e la riferisce erroneamente all'affrettato rito del rogo delle spoglie di Enea.
[41] E' noto infatti che Didone si innamori di Enea durante il lungo racconto delle sue imprese.
Dal Quarto Libro dell'Eneide:
E quando il giorno
va dechinando, a convivar ritorna,
e di nuovo a spïar de gli accidenti
e de' fati di Troia, e nuovamente
pende dal volto del facondo amante.

[42] Ora per ora.
[43] Creùsa, durante la fuga da Troia. Per voler del Fato. Ed in particolare, per consentire ad Enea di prendere sposa italica.
Con descrizione in chiusura di Secondo Libro.
[44] Anchise, prima del fortunoso approdo a Cartagine.
Con descrizione in chiusura di Terzo Libro.
[45] Didone.
[46] Dal Secondo Libro.
Si suppone qui che Enea, suggestionato dalla propria Fede nel Fato, percepisca in sogno l'apparizione dell'Ombra di Creùsa; ciò che nel Secondo Libro, egli stesso narra a Didone come fatto avvenuto.
[47] Dal Quarto Libro.
In questo caso si tratta dell'angosciante ricordo di un fatto narrativamente accaduto.
[48] Lago di origine vulcanica, con abbondanti esalazioni mefitiche, sito presso Cuma, in Campania.
Per i pagani rappresentava uno degli ingressi dell'oltretomba.
[49] Ancora si suppone che sia la mente di Enea, suggestionata dai concetti pagani di Fato e predestinazione, a sviluppare in sogno la discesa agli Inferi, che invece è fatto narrativamente concreto nel Sesto Libro dell'Eneide, e questo caratterizzante.
[50] La Sibilla di Cuma, colonia greca della Campania.
Portavano l'appellativo di Sibilla, dal nome della prima di loro, tutte le sacerdotesse di Apollo.
[51] Dal Sesto Libro.
[52] Dal Settimo Libro dell'Eneide, l'approdo di Enea alla foce del Tevere:
Qui la terra mirando, il padre Enea
vede un'ampia foresta, e dentro, un fiume
rapido, vorticoso e queto insieme,
che per l'amena selva, e per la bionda
sua molta arena si devolve al mare.
Questo era il Tebro, il tanto desïato,
il tanto cerco suo Tebro fatale:
a le cui ripe, a le cui selve intorno,
e di sopra volando, ivan le schiere
di piú canori suoi palustri augelli.
Allor: «Via, - dice a suoi - volgete il corso
itene a riva». E tutti in un momento
rivolti e giunti, de l'opaco fiume
preser la foce, e lietamente entraro.

[53] Appellativo poetico dell'Italia, di origine greca.
Enea ed i suoi compagni sono sbarcati sulle coste del Lazio.
[54] All'inizio dell'Ottavo Libro dell'Eneide, l'Eroe si trova in difficile condizione. Le popolazioni laziali stanno per attaccarlo, ed egli, ancor privo di alleati, medita qualche rimedio:
Questi andamenti e queste trame allora
correan per Lazio, e lo scaltrito eroe
le sapea tutte, onde in un mare entrato
di gran pensieri, or la sua mente a questo,
or a quel rivolgendo in varie parti,
d'ogni cosa avea téma e speme e cura.
Cosí di chiaro umor pieno un gran vaso,
dal sol percosso, un tremulo splendore
vibra ondeggiando, e rinfrangendo a volo
manda i suoi raggi, e le pareti e i palchi
e l'aura d'ogni intorno empie di luce.

Nel Sesto Libro, Enea aveva incontrato l'Ombra di Didone nell'Averno; perciò era venuto ad apprendere con certezza che ella era morta.
Nella nostra linea narrativa, non avendo l'Eroe incontrato Didone nell'oltretomba, egli ritiene non solo che ella possa ancor esser viva, ma pur che possa, ancora innamorata di lui, venirgli per questo in soccorso con le sue potenti armi.
Perciò invia il suo miglior ambasciatore, Ilioneo, a parlamentare con la Regina.
[55] Magnifica traduzione di Adriano Bacchielli, che mette in aulica evidenza, l'animo illuminato e pacifista di Virgilio.
Dal Settimo Libro dell'Eneide (traduzione del Bacchielli; nostra sottolineatura):
E coloro
le cui madri battevano le selve
dal furore di Bacco all'orgia spinte,
(tanto il nome d'Amata in lor poteva)
insiem raccolti invocano la guerra,
la scellerata guerra; e contro i Fati,
contro i portenti degli Dei, a gara
assediano la reggia di Latino.
Infandum … bellum,
è l'espressione originale di Virgilio (VII.583).
Altri significati accettati per l'attributo sono: orribile, nefando (così in Luca Canali: guerra nefanda), obbrobrioso, vergognoso, abbominevole (Castiglioni/Mariotti).
Annibal Caro ha reso l'espressione con non giusta guerra.
[56] Notissima, struggente vicenda al centro del Nono Libro.
Così, dopo la scena della morte di Eurialo e Niso, i due giovanissimi seguaci di Enea, si esprime il Vate:
Fortunati ambidue! Se i versi miei
tanto han di forza, né per morte mai,
né per tempo sarà che 'l valor vostro
glorïoso non sia, finché la stirpe
d'Enea possederà del Campidoglio
l'immobil sasso, e finché impero e lingua
avrà l'invitta e fortunata Roma.

E' appena il caso di aggiungere che, come da me Carneade (vi ricordo il mio nome) già facilmente detto agli esordi di tal messinscena, il Sommo Vate ben oltre le sorti di Roma è giunto.
[57] Nel Settimo Libro, la Furia Alletto semina la discordia tra Italici e Troiani, accendendo la “scellerata guerra”.
[58] Come già ricordato, Giunone era Protettrice di Cartagine e avversava la nascita di Roma.
[59] Apollo allude alla circostanza secondo la quale, se Didone fosse riuscita a conquistare il cuore di Enea, questo sarebbe stato distolto da Lavinia, già fidanzata con Turno ed a questo invero devota.
Re Turno è il leader delle genti italiche in guerra contro Enea.
[60] Giunone.
[61] Turno.
[62] La discordia seminata da Alletto aveva costretto il saggio Re del Lazio, Latino, fieramente contrario alla guerra, a farsi da parte.
Peraltro lui stesso intendeva assecondare i disegni del Fato, concedendo in sposa ad Enea l'unica figlia Lavinia,  così sottraendola al suo amato fidanzato, Turno.
L'auspicio espresso da Apollo è pertanto rivolto ad entrambe le parti.
[63] Dea dell'amore.
[64] I Colli Albani.
[65] I laghi d'Albano e di Nemi.
[66] Si ipotizza un punto d'osservazione posto sugli alti dintorni dell'attuale Albano Laziale, città sorta sull'antica Alba Longa, fondata secondo la leggenda dal figlio di Enea (e Creùsa, sua prima moglie), Ascanio detto Julo.
[67] Dal Quarto Libro dell'Eneide (Didone si confida con la sorella Anna, e le rivela i suoi sentimenti per Enea):
Ché, a dirti 'l vero,
Anna mia, da che morte e l'empio frate
mi privâr di Sichèo, sol questi ha mosso
i miei sensi e 'l mio core, e solo in lui
conosco i segni de l'antica fiamma.

[68] Tipico colore fenicio.
[69] Si veda pregressa nota.
[70] E' infatti primavera.
Cirocostanza più volte suggerita al cortese lettore/spettatore.
[71] Si accenna di nuovo alla volubilità popolare, invertendo i termini che io stesso avevo declarato in precedenza (stesso atto, Prima scena: «perché la Fama disonesta, se veloce s'alza, allor sì rapida s'abbassa»).
[72] Altro nome greco dell'Italia.
[73] Antica città fondata dal greco Evandro nei luoghi della futura Roma, ai margini del Tevere, nei pressi del Colle Palatino, che da tale città deriva il proprio nome.
A sua volta Pallanteo è dedicata al greco Pallante, progenitore di Evandro.
Il Dio del fiume Tevere, Tiberino, nell'Ottavo Libro, era infatti apparso in sogno ad Enea e lo aveva esortato a risalire il corso delle acque per giunger fin proprio a Pallanteo, città retta da Re greco e da tempo in guerra contro i Latini, al fin di chiedere alleanza.
[74] Moglie di Re Latino, appoggia le aspirazioni di Turno nei riguardi della propria figlia Lavinia.
[75] Enea e Didone.
Entrambi originari di città asiatiche (Troia e Tiro), ed entrambi profughi da queste.
[76] Dodici erano le divinità principali (olimpiche) dei pagani (il primo termine indica la denominazione greca, il secondo quella romana; tra parentesi il tipo e grado di rapporto con Zeus/Giove, il dio fondamentale): Zeus/Giove, Era/Giunone (moglie), Poseidone/Nettuno (fratello), Demetra/Cerere, Estia/Vesta (sorelle), Apollo/idem, Ares/Marte, Efesto/Vulcano, Ermes/Mercurio (figli), Artemide/Diana, Atena/Minerva (figlie), Afrodite/Venere (nuora).
[77] I Troiani.
[78] Altro nome di Troia, così detta da Ilo, uno dei più antichi Re della città.
[79] E' la celebre maledizione del Quarto Libro, poi rinnegata in punto di morte:
«Adunque
morrò senza vendetta? Eh, che si muoia,
comunque sia. Cosí, cosí mi giova
girne tra l'ombre inferne: e poi ch'il crudo,
mentre meco era, il mio foco non vide,
veggalo di lontano; e 'l tristo augurio
de la mia morte almen seco ne porte».

Virgilio immagina che il futuro vendicatore di Didone sarà Annibale, il quale metterà Roma ad un passo dalla fine.
Poiché nella nostra narrazione la maledizione di Didone è intimo pensiero e non aperta invocazione, la sua esplicita negazione non ha ragion d'essere.
[80] Responso divinatorio tratto dall'esame delle viscere di animali, proprio di molte religioni antiche.
Il rito fu contrastato per la prima volta dall'Imperatore romano Costantino, nel IV secolo d.C..
[81] Si allude a Giulio Cesare.
Dal Primo Libro dell'Eneide, nella sua interezza, l'esaltante discorso profetico di Giove rivolto alla figlia Venere, madre angosciata d'Enea:
«Non temer, Citerèa, ché saldi e certi
stanno i fati de' tuoi. S'adempieranno
le mie promesse; sorgeran le torri
de la novella Troia; vedrai le mura
di Lavinio; porrai qui fra le stelle
il magnanimo Enea. Ché né 'l destino
in ciò si cangerà, né 'l mio consiglio.
Ma per trarti d'affanni, io te 'l dirò
piú chiaramente; e scoprirotti intanto
de' fati i piú reconditi secreti.
Figlia, il tuo figlio Enea tosto in Italia
sarà; farà gran guerra, vincerà:
domerà fere genti: imporrà leggi:
darà costumi, e fonderà città:
e di già, vinti i Rutuli, tre verni
e tre stati regnar Lazio vedrallo.
Ascanio giovinetto, or detto Iulo,
ed Ilo prima infin ch'Ilio non cadde,
succederagli; e trenta giri interi
del maggior lume, il sommo imperio avrà.
Trasferirallo in Alba: Alba la lunga
sarà la reggia sua possente e chiara.
Qui regneranno poi sotto la gente
d'Ettorre un dopo l'altro un corso d'anni
tre volte cento; finch'Ilia regina
d'un parto produrrà gemella prole.
Indi capo ne fia Romolo invitto.
Questi, in vece di manto, adorno il tergo
de la sua marzïal nudrice lupa,
di Marte fonderà la gran cittade:
e dal nome di lui Roma diralla.
A Roma non pongo io termine o fine:
ché fia del mondo imperatrice eterna.
E l'aspra Giuno, ch'or la terra e 'l mare
e 'l ciel per téma intorbida e scompiglia,
con piú sano consiglio al mio conforme,
procurerà che la romana gente
in arme e 'n toga a l'universo imperi.
E cosí stabilisco: e cosí tempo
ancor sarà ch'Argo, Micene e Ftia
e i Greci tutti tributari e servi
de la casa di Assàraco saranno.
Di questa gente, e de la Iulia stirpe,
che da quel primo Iulo il nome ha preso,
Cesare nascerà, di cui l'impero
e la gloria fia tal, che per confine
l'uno avrà l'Oceàno, e l'altra il cielo.
Questi, già vinto il tutto, poi che onusto
de le spoglie sarà de l'Orïente,
anch'egli avrà da te qui seggio eterno,
e là giú fra' mortali incensi e vóti.
L'aspro secolo allor, l'armi deposte,
si farà mite. Allor la santa Vesta
e la candida Fede e 'l buon Quirino
col frate Remo il mondo in cura avranno.
Allor con salde e ben ferrate sbarre
de la guerra saran le porte chiuse:
e dentro in fra la ruggine sepolto
con cento nodi incatenato e stretto
gran tempo si starà l'empio Furore;
e rabbioso fremendo orribilmente,
con fuoco a gli occhi, e bava e sangue a i denti
morderà l'armi e le catene indarno».

[82] Dal Primo Libro (Bacchielli).
[83] Dal Secondo atto, Dodicesima scena.
Nella scena originale, il brano è interpretato da Iarba.
[84] Dal Primo Libro (Bacchielli).
[85] Ignari di esser sfuggiti a tragico destino, ed a “scellerato” scempio.
Con la sopravvivenza di Eurialo e Niso, Didone ottiene conferma della profezia di Apollo e della riuscita della propria missione.
[86] Come in occasione della battuta di caccia in Cartagine, allorquando la stessa incauta Giunone, d'accordo con Venere, ma con opposti motivi, scatenò improvvisa tempesta per favorire occulto incontro tra Enea e Didone.
Dal Quarto Libro:
In questa il cielo
mormorando turbossi, e pioggia e grandine
diluvïando, d'ogni parte in fuga
Ascanio, i Teucri, i Tiri ai piú propinqui
tetti si ritiraro; e fiumi intanto
sceser da' monti, ed allagaro i piani.
Solo con sola Dido Enea ridotto
in un antro medesimo s'accolse.
Diè, di quel che seguí, la terra segno
e la pronuba Giuno. I lampi, i tuoni
fûr de le nozze lor le faci e i canti;
testimoni assistenti e consapevoli
sol ne fûr l'aria e l'antro; e sopra 'l monte
n'ulularon le ninfe.

[87] Così infatti Enea si rivolge a Didone, nel Quarto Libro, poco prima della sua partenza da Cartagine:
«Se 'l mio destino
fosse che la mia vita e i miei pensieri
a mia voglia reggessi, a Troia in prima
farei ritorno: raccôrrei le dolci
sue disperse reliquie: a la mia patria
di nuovo renderei la vita e i figli,
e la reggia e le torri e me con loro».
[88]Il breve addio di Enea così infatti si conclude, nel Quarto Libro:
«Rimanti adunque
di piú dolerti; e con le tue querele
né te, né me piú conturbare. Italia
non a mia voglia io seguo».

[89] Turno.
[90] Sorta di limbo pagano, nel quale vagavano ancor sofferenti le anime dei suicidi per mal d'amore.
Dal Sesto Libro:
Quinci non lunge si distende un'ampia
campagna che del Pianto è nominata;
per cui fra chiusi colli e fra solinghe
selve di mirti, occulte se ne vanno
l'alme, c'ha feramente arse e consunte
fiamma d'amor, ch'ancor ne' morti è viva.

[91] Pianta sacra a Venere, Dea dell'amore, che cresceva nei Campi del Pianto.
Si veda la precedente nota.
[92] Dal Sesto Libro.
L'appello di Enea a Didone nell'oltretomba, qui citato nella sua interezza, è uno dei brani più noti dell'Eneide.
Il vero epilogo della loro storia, ed il summa della stessa.
Dal nostro punto di vista, l'integrale riproposizione di tale brano, ci consente di evidenziare al cortese lettore/spettatore, il percorso seguito dalla nostra linea narrativa. Infatti pur avendo mutato l'evento considerato centrale della storia virgiliana (il suicidio di Didone), siam riusciti a riproporre immutato il suo epilogo, con ciò mostrando che pressoché infiniti sono i percorsi consentiti da Virgilio, e dalla sua enciclopedica, titanica descrizione dell'animo umano.
[93] Dal Sesto Libro.
Questo il brano non citato, che in originale è frapposto alle nostre due ultime citazioni:
Cosí dicendo e lagrimando intanto
placar tentava o raddolcir quell'alma,
ch'una sol volta disdegnosa e torva
lo rimirò; poscia o con gli occhi in terra,
o con gli omeri vòlta, a i detti suoi
stette qual alpe a l'aura, o scoglio a l'onde.
Alfin, mentre dicea, come nimica
gli si tolse davanti, e ne la selva
al suo caro Sichèo, cui fiamma uguale
e par cura accendea, si ricondusse.

[94] Per ben comprendere il Maestro, si raccomanda al cortese lettore di prender visione di pregressa nota.
[95] Dal Terzo atto, Undicesima scena de La Didone.
[96] Riferimento di nostra concezione.
Amico giovanile di Didone, non le confessò mai il proprio amore, ma ella lo percepì da subito, pur non ricambiandolo.
Morì prematuramente per il naufragio della sua nave.
[97] Dal Terzo atto, Dodicesima scena.
Nella scena originale, il brano è recitato da Didone rivolta a Iarba.
[98] Si confronti la relazione tra Rinaldo ed Armida nella Gerusalemme Liberata.
[99] Si confrontino le riflessioni del Maestro nello Zibaldone.

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